ASSEMBLEA ANNUALE DELLA
CONFEDERAZIONE ITALIANA ARMATORI
Roma, 7 - 8 maggio 1997
Intervento del Presidente della Confindustria, Giorgio Fossa
Dalle finestre del mio studio di Confindustria, che si affaccia
sul Palazzo della Civiltà del Lavoro, mi capita spesso
di leggere che siamo anche un popolo di navigatori.
I presupposti ci sarebbero tutti: dai precedenti storici delle
Repubbliche Marinare all'articolazione del nostro territorio che
è circondato da circa 9000 km di coste; e poi la forte
dipendenza, assolutamente vitale per il Paese, dalle importazioni
e dalle esportazioni che toccano fortemente il trasporto via mare.
Peccato che a questa naturale vocazione non siano seguiti, almeno
non sempre, adeguati comportamenti. Forse perché si sottovaluta
che la navigazione mercantile costituisce una parte cospicua dell'economia
marittima.
Un segnale di rinnovata attenzione per il settore, come peraltro
ha ricordato il vostro Presidente nella sua relazione, riguarda
la recente approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di
un disegno di legge di riforma del nostro ordinamento proprio
del ministro Burlando, al fine di adeguare la nostra legislazione
a quella dei Paesi Europei nostri competitori.
Penso di interpretare anche le vostre aspettative se esprimo la
speranza che il provvedimento, accogliendo le proposte formulate
dal settore, sia indicativo di un mutamento complessivo dell'atteggiamento
nei vostri confronti.
Un altro segnale tangibile, di cui Grimaldi ci ha dato atto, è
l'importanza che Confindustria annette al problema e lo ha nei
fatti dimostrato attraverso il documento strategico sulla politica
dei trasporti "Investire in efficienza"; ove si pone
anche in evidenza il ruolo della navigazione marittima come una
delle questioni nazionali.
Come ho già detto in più occasioni, la filosofia
del nostro documento è quella di dare un fattivo contributo
in chiave propositiva all'ammodernamento dell'intero sistema dei
trasporti italiano.
Se questo è un obbiettivo irrinunciabile per qualsiasi
Paese, lo è a maggior ragione per il nostro che basa la
sua economia, come ho detto precedentemente, su importazione ed
esportazione.
Ciò richiede in primo luogo di adeguare più rapidamente
possibile la qualità, i prezzi e la competitività
dei trasporti italiani almeno a livello europeo.
La concorrenza incalza, le economie marittime degli altri paesi
si fanno sempre più aggressive, se non recupereremo competitività
corriamo fortemente il rischio dell'emarginazione.
Il primo passo da compiere è quello, a nostro giudizio,
della privatizzazione e della liberalizzazione e ciò vale
per tutti i settori dei trasporti.
Il sistema dei trasporti richiede una forte integrazione tra tutte
le sue componenti. Per realizzare questa integrazione, che è
sicuro segno di efficienza, i processi di privatizzazione sono
indispensabili.
Finché resteranno pubbliche, le imprese di trasporto non
solo difficilmente diventeranno efficienti, ma vedranno frustrato
ogni più volenteroso tentativo di collaborazione efficiente
tra loro in una logica di sistema.
E' per questo che diviene ancor più necessario aumentare
la partecipazione del capitale privato, non soltanto nelle imprese
di servizio da privatizzare, ma anche per la realizzazione e la
gestione di quei grandi progetti nei quali l'impresa privata è
certamente in grado di garantire capacità imprenditoriale,
"know how" tecnico e innovatività finanziaria.
Noi non vogliamo chiudere le porte agli stranieri, anzi vogliamo
che sia forte l'afflusso di capitale internazionale in queste
operazioni sia di privatizzazione sia di nuovi investimenti, ma
vogliamo fortemente che anche gli imprenditori italiani siano
messi in condizione, avendo le stesse possibilità dei nostri
" partners" europei e dei paesi fuori del Vecchio Continente,
di poter giocare la nostra partita su questo campo.
Naturalmente per avviare qualsiasi processo di efficienza resta
determinante la capacità di decidere dell'operatore pubblico,
cui spetta sempre una funzione di indirizzo, di pianificazione,
di controllo; l'esigenza di decisioni rapide e condivise tra i
vari livelli di governo, tanto più in una prospettiva di
accentuato decentramento, comporta la necessità di modificare
normative e comportamenti che oggi troppo spesso premiano la paralisi
e l'inefficienza.
Non è più tollerabile che un piccolo comune, per
ragioni che talvolta possono anche apparire comprensibili, sia
in condizione di bloccare investimenti di migliaia di miliardi
e di ritardare così processi di sviluppo che interessano
tutto il Paese.
Bisogna quindi studiare e far funzionare meccanismi che consentano
a tutti di esprimere il proprio parere, senza che per questo si
blocchino i processi decisionali fino a far prevalere un ingiustificato
veto di pochi sull'interesse di tutti.
I ritardi accumulati nell'ampliamento della nostra rete infrastrutturale
sono un costo in più per il sistema produttivo italiano.
Un moderno sistema dei trasporti è uno dei tasselli di
quel processo di modernizzazione del Paese senza il quale difficilmente
sarà possibile per noi entrare e rimanere da protagonisti
in Europa.
Perché sappiamo, e spenderò qualche parola più
avanti sulla necessità di centrare i parametri di Maastricht,
che è fondamentale adeguare in tutti i settori il più
possibile, il più rapidamente possibile, il nostro Paese
agli altri paesi europei anche dal punto di vista infrastrutturale
generale. Questo è un Paese che, se gli altri hanno la
possibilità di camminare per migliorare, ha bisogno di
correre e di correre molto rapidamente, perché altrimenti
ci sarà un'ulteriore zavorra sulle spalle, non solo delle
imprese, ma di tutti i cittadini: una zavorra che ci costringerà
ad essere probabilmente allontanati, forse in un secondo momento,
dall'Europa; e questo sarebbe non solo un danno, per le nostre
imprese e per il nostro Paese, ma sarebbe addirittura umiliante.
E' per questo che ora non posso non ricordare i problemi che riguardano
il risanamento della Finanza Pubblica.
A partire dal 1992, gli italiani tutti hanno fatto uno sforzo
importante per avviare il risanamento della Finanza Pubblica.
Il carico fiscale è aumentato sul PIL di ben 5 punti. Le
parti sociali hanno dato, nonostante qualche problema, un apporto
significativo con l'accordo sulla politica dei redditi, che ha
prodotto frutti consistenti in termini di calo dell'inflazione
e di riduzione dei tassi d'interesse.
Ma anche qui è meglio non illudere e non illudersi.
L'"inflazione", sarà vinta solo quando potremo
vedere che cosa succederà con una ripresa, che noi speriamo
sia la più vicina possibile: solo in quel momento potremo
dire se, appunto, i risultati saranno risultati duraturi, perché
sicuramente tutti abbiamo contribuito, come italiani, a questa
diminuzione, ma il calo dei consumi, il forte e preoccupante calo
dei consumi sicuramente ha giocato una parte importante in questa
partita.
E poi c'è il problema della riduzione dei tassi d'interesse.
Questo, se lo leggiamo probabilmente dal punto di vista dei fondamentali
dell'economia, è sicuramente un fattore da tenere in considerazione.
Però è meglio guardarci tra tutti negli occhi e
dire chiaramente che questo è importante dal punto di vista
del risparmio per il Tesoro, ma i tassi effettivi, i tassi reali
che pagano oggi le imprese, sono più alti di quelli di
un anno fa, perché l'inflazione è calata molto di
più di quanto è calato il costo del denaro, sia
per quanto riguarda il Tasso Ufficiale di Sconto, sia per quanto
riguarda il costo del denaro presso il sistema bancario.
Il sistema bancario ha sicuramente alcuni problemi. Riconosciamo
questi problemi, ma non è pensabile che si vada avanti
scaricandone costi sui cittadini e sulle imprese; perché
facendo in questa maniera si continuerà a fare danni e
non si giocherà quella carta importante che è lo
sviluppo, che è l'unica strada per dare fiato a questo
Paese, per ridare speranza, per ridare fiducia e per affrontare
seriamente il problema dell'occupazione che rimane un altro dei
grandi problemi del Paese.
Vi è poi il peso dello Stato Sociale, che è costoso,
inefficiente e così com'è, drena risorse sottraendole
agli impegni produttivi.
Le difficoltà che incontrano le privatizzazioni e le liberalizzazioni,
le rigidità che continuano ad esistere sul mercato del
lavoro rischiano di riportarci indietro e di allontanarci da traguardi
importanti.
Non mi stanco di ripetere, a costo di apparire monotono, che senza
interventi strutturali sulla spesa pubblica, a cominciare da una
seria riforma delle pensioni che porti ad un'abolizione di quelle
di anzianità, difficilmente il Paese potrà progredire
sulla via dell'Europa.
Ho letto, in questi giorni, proposte che vorrebbero ridurre gli
interventi invocati per le pensioni al solo contributo di solidarietà,
o rinviare soltanto di un anno tutte le pensioni di anzianità.
Ribadisco e dichiaro in maniera trasparente che non è questa
la strada per procedere verso il risanamento. Questa non è
solo la tesi degli imprenditori, è la tesi, oggi, anche
della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale,
della Banca d'Italia, dell'OCSE. La nostra spesa sociale è
sul banco degli imputati.
Non facciamoci ingannare, quando qualcuno dice che la spesa sociale
italiana è più bassa di quella degli altri paesi.
Noi vogliamo una riforma dello Stato Sociale perché vogliamo
che lo Stato Sociale continui ad esserci, ma deve essere uno Stato
sociale più equo. Se sarà necessario sarà
opportuno anche fare una riduzione perché:
- quando si dice che in Italia lo stato sociale costa meno di
altri paesi, si prendono in considerazione parametri che sono
vecchi di tre anni; negli altri paesi, in questi tre anni, si
sono già fatte delle riduzioni, non ancora massicce, ma
sicuramente il problema è stato affrontato;
- il reddito pro-capite italiano è più basso di
quello degli altri paesi europei, per cui anche questo deve giocare
sul piatto della bilancia e sicuramente la spesa sociale italiana
non comprende solo il costo per la Previdenza, per la Sanità,
per il Pubblico Impiego, ma in questo Paese ci sono alcune variabili
aggiuntive che sono più forti che negli altri paesi; che
cosa sono 20 o 30 mila esuberi nel sistema bancario o in altri
settori, se non uno Stato Sociale camuffato che comunque pesa,
direttamente o indirettamente, su tutti i cittadini di questo
Paese? Non facciamoci ingannare: questo è un problema che
va affrontato. Non vogliamo scontri di piazza, non vogliamo problemi
per i più deboli, ma lo Stato sociale deve riguardare i
più deboli. Chi ne ha la possibilità deve sempre
più camminare con le proprie gambe.
I principi, ai quali deve ispirarsi una seria riforma, non possono
discostarsi da quelli che da tempo reclamiamo nell'interesse del
Paese, che è anche l'interesse nostro, non solo come imprenditori,
ma come cittadini, e sono: ridurre il livello della spesa pubblica
per alleggerire la pressione fiscale e contributiva, liberando
risorse per mettere o rimettere in moto l'occupazione attraverso
la ripresa dell'economia; aprire tutti i settori produttivi, ed
in particolare i servizi, alla concorrenza eliminando le protezioni
offerte dai monopoli o il fatto che si spacci per privatizzazioni
aziende pubbliche che, passando di mano, finiscono a Istituti
Bancari pubblici. Queste non sono privatizzazioni!
Bisogna tornare alle originali finalità redistributive
ed assicurative del "welfare-state", bisogna introdurre
elementi di mercato nell'offerta dei beni e dei servizi sociali
per un più efficiente uso delle risorse, bisogna favorire
la mobilità dei lavoratori, grazie anche ad un diverso
uso degli ammortizzatori sociali. Sì, siamo pronti anche
a ridiscutere con le altre parti sociali, con il Governo una revisione
degli ammortizzatori sociali. Bisogna privilegiare forme di assistenza
di tipo assicurativo o contributivo rispetto ai trasferimenti
di denaro.
Quando Confindustria si esprime a favore di una seria riduzione
della spesa pubblica, compresi i trasferimenti alle imprese, indica
una scelta europea. Una scelta che sicuramente può creare
qualche problema a qualcuno di noi, può creare qualche
problema anche all'interno della nostra Confederazione, ma questa
è la scelta che la stragrande maggioranza degli imprenditori
associati a Confindustria ha fatto e questa è la scelta
che noi continueremo a portare avanti.
Una scelta che dovrebbe essere apprezzata dal Governo nel suo
insieme, perché risponde alle esigenze dell'intero Paese
e perché è in sintonia con l'obiettivo di voler
entrare nella moneta unica sin dall'inizio. Non farlo sarebbe
autolesionistico.
L'inflazione, il cambio, la bilancia dei pagamenti creano oggi
le condizioni per una riduzione del tasso di sconto, che avrebbe
benefici effettivi, oltre che per il sistema produttivo, per far
rinascere quello sviluppo che, come ho detto prima, è l'unico
aggancio o ancoraggio per ridare speranza a chi oggi non ha un
posto di lavoro. E' un'operazione che va fatta rapidamente. Mi
rendo conto delle perplessità, dei rischi a cui si deve
sottoporre anche il Governatore in questa scelta, ma va fatta
in fretta, anticipando tensioni che si potrebbero verificare nell'ipotesi
di un nuovo rialzo dei tassi; perché non so quanto l'Europa,
quanto le banche centrali europee riescano a resistere al vento
che viene dalle coste dell'Atlantico.
Qualche governatore centrale di importanti paesi europei ha detto
che saremo meno toccati, meno influenzati da quello che succede,
ma difficilmente sarà così ed, in un certo senso,
anche l'aumento del tasso ufficiale di sconto in Inghilterra può
essere una chiave di lettura, sicuramente non positiva, per quello
che può succedere sui tassi nei prossimi mesi.
Ma non possiamo dimenticarci della crescita estremamente bassa
del PIL dell'ultimo anno e di quello che, probabilmente, sarà
il 1997.
In Italia abbiamo avuto una crescita dello 0.7-0.8% lo scorso
anno e secondo il Centro Studi di Confindustria ed altri centri
di ricerca il 1997 non andrà oltre l'1-1.2%. Si tratta,
e questo è ancora più grave, della peggiore performance
tra i paesi comunitari dopo un 1995 in cui invece eravamo nella
situazione opposta. Di fronte ad una situazione di questo tipo
le decisioni, a nostro giudizio, sono obbligate; occorre accelerare
il risanamento con interventi strutturali sulla spesa corrente,
d'altra parte bisogna rilanciare lo sviluppo sostenendo e non
penalizzando investimenti in infrastrutture e le attività
produttive con ulteriore pressione fiscale.
Questo però non avviene, anzi spesso e volentieri avviene
il contrario. Si tratta di un'impostazione estremamente pericolosa,
perché deprime gli investimenti e l'occupazione senza portare
un vero sollievo duraturo ai conti pubblici, che nei prossimi
anni saranno caricati anche degli arretrati di tutta quella serie
di manovre non strutturali che sono state fatte.
Infatti, a mio giudizio, non possiamo criticare quelle che sono
state le valutazioni della Commissione Europea. Prima di tutto
perché io non le ritengo una bocciatura definitiva, ma
le ritengo uno stimolo a fare interventi più strutturali,
a fare interventi più duraturi, più seri per poter
centrare quel parametro.
Quello che preoccupa non è il 3.2% che è stato fotografato
in questo momento per il 1997 perché, io dico, con manovre
non strutturali si può anche ridurre ulteriormente quel
3.2% e portarlo al 3%, ma il problema grave e sul quale lavorare
è il 3.9% per il 1998.
Prima di tutto, perché questo è un Paese che, con
tutte le difficoltà che ha, non può permettersi
di mettere in conto ogni anno di dover pagare alcune penali alla
Comunità Europea com'è stato sostanzialmente stabilito
negli incontri in Irlanda.
Secondo, perché appunto c'è quel rischio che ho
detto prima, che umilierebbe il Paese se dovessimo uscire dopo
un eventuale ingresso.
Gli imprenditori, la quasi totalità, ma sicuramente la
larghissima maggioranza degli imprenditori italiani, è
disposta ancora a sacrifici, ma sacrifici strutturali per entrare
nell'Europa.
Però deve anche denunciare quello che è il pericolo
che noi abbiamo di fronte. E il pericolo è tutto quello
che sta fuori delle nostre fabbriche, che sta fuori delle vostre
navi, che sono i problemi che noi tutti conosciamo: la pubblica
amministrazione, l'eccesso della pressione fiscale e quant'altro.
Bisogna avere coraggio per intervenire su questi punti.
Abbiamo il problema della disoccupazione, non possiamo pensare
di affrontare il problema della disoccupazione per decreto; bisogna
sperimentare modelli nuovi, modelli che funzionano ed hanno dato
risultati straordinari in altri paesi.
Bisogna assolutamente che si affrontino, in maniera diversa, alcune
partite aperte che riguardano il patto del lavoro che in parte
ieri è stato modificato alla Camera, ma che ancora non
va nella direzione giusta, soprattutto per quanto riguarda le
imprese medio-piccole, soprattutto per quanto riguarda il lavoro
interinale.
Con la proposta che purtroppo è stata solo leggermente
modificata e che è uscita dal Senato, non solo questo lavoro
interinale non creerà nuovi occupati (cosa che invece sta
facendo in altri paesi, addirittura 300.000 l'anno in Francia),
ma rischierà di mettere a repentaglio posti di lavoro che
oggi ci sono, perché con l'impostazione che è stata
data, nella sola Lombardia si perderebbero, per rispettare quelle
regole, dai 200 ai 300 mila posti di lavoro subito. E questo è
un punto che deve far riflettere la classe politica tutta, maggioranza
e opposizione.
Noi vogliamo, come prima ho ricordato, entrare a pieno titolo
in Europa; ritengo che ce la possiamo fare, ci sono ancora tutte
le possibilità per farlo purché lo si voglia. Ripeto:
la valutazione della Commissione Europea deve essere presa come
stimolo.
Voglio anche però chiudere questo mio intervento rileggendoVi
l'ultimo passaggio della relazione di Giuliano Amato, perché
è la conferma di quanto noi diciamo da tempo: che sviluppo
e risanamento possono marciare insieme.
Lui stamattina ci ha detto che, da ministro del Tesoro, ha imparato,
e non lo ha dimenticato mai più, che la ricchezza di un
Paese può essere dilapidata dalla crescita incontrollata
del debito pubblico, dalle spese allocate per egoismo, per leggerezza,
per impotenza. Ha appreso allora quanto sia importante e risponda
profondamente a ragioni di equità, l'azione di risanamento.
Ma, da Presidente dell'Antitrust, ha dichiarato di aver imparato
altresì che la ricchezza di un Paese può anche essere
distrutta dalla disattenzione per la sua economia reale, dai pesi
di cui la si carica aggravandone le conseguenze, dalle strozzature
con cui se ne soffocano le potenzialità e che non vengono
rimosse a causa di arroganze regolatrici, di difese corporative,
di inconsapevoli noncuranze.
Neppure questo, lui dice di dimenticarsi, e spera che non sia
dimenticato da chi oggi ci governa e da chi ci governerà
in futuro.
Noi vogliamo, come ho detto altre volte, continuare a fare gli
imprenditori in questo Paese, non vogliamo assolutamente nulla
di più di quello che hanno gli altri nostri concorrenti
non solo a livello europeo, ma a livello internazionale in generale;
ma vogliamo che nel minor tempo possibile, perché il fattore
tempo è fondamentale, il divario che oggi in negativo pesa
su di noi sia ristretto e sia ristretto, nella maniera migliore.
Grazie.